Ho ritrovato mio fratello su Facebook: ecco come l’ho salvato dalla droga.
Trascriviamo l’articolo di La Repubblica del 14 novembre, sulle pagine della cronaca.
Il racconto: tre giovanissimi colombiani adottati in Italia tredici anni fa, un quarto della stessa famiglia che resta a Bogotà e non se ne sa più nulla. Poi il lieto fine grazie a internet.
Alan ha 23 anni e gli occhi neri profondissimi dei colombiani. È stato adottato da una coppia italiana con due fratelli più piccoli quando di anni ne aveva 10. Un quarto fratello, bizzarrie della burocrazia, è rimasto a Bogotà. Di lui, per anni, Alan non ha saputo più nulla. L’ha ritrovato attraverso Facebook e, sempre sul social network, ha ripreso i contatti anche con i genitori biologici. Ma sono state due esperienze con esiti diametralmente opposti. «Per me quel fratello rimasto in Colombia era sempre stato un incubo», racconta. «Ero il più grande dei quattro e per questo mi sentivo responsabile della sorte di tutti, anche della sua. Immaginare noi tre qui al sicuro e pensare a lui perso chissà dove per le strade di Bogotá non mi faceva dormire. La famiglia che ci aveva accolto mi rendeva felice, ma il destino del mio terzo fratello mi angosciava terribilmente. Fin che ero piccolo potevo far poco, se non tenermi dentro il mio dolore, ma poi, aiutato dai miei genitori, sono riuscito a trovare su Facebook la direttrice dell’istituto dove eravamo stati ospitati in attesa dell’adozione. Lei mi aveva sempre trattato come un figlio e anche a distanza di così tanto tempo ha deciso di aiutarmi a cercare mio fratello. Non sapevo bene neanch’io cosa mi aspettavo da questa ricerca: volevo vederlo? Incontrarlo? So solo che volevo sapere che fine aveva fatto, perché non saperlo era un peso insopportabile».
Cercare un ragazzino in una città di sette milioni di abitanti come Bogotà era però un’impresa tutt’altro che facile, ma Alan viene aiutato dalla fortuna. «La televisione colombiana conduceva una campagna per ritrovare i bambini abbandonati per strada. La signora alla quale ho chiesto aiuto ha riconosciuto mio fratello in tv e io le ho domandato di andare a cercarlo. Era disperato, era finito in un giro di droga. Viveva per strada al Cartucho, un quartiere che allora era il più malfamato di tutta Bogotà. Ho saputo poi che aveva accoltellato una persona e a sua volta era rimasto ferito».
Alan, anche se in quel momento non ha la possibilità di raggiungerlo in Colombia, decide di occuparsi del fratello lontano. Prima lo convince a entrare in una comunità di recupero per tossicodipendenti, poi a fare la leva obbligatoria in modo da tenersi lontano da brutti ambienti. «Con l’aiuto dei miei genitori italiani sono riuscito anche a fargli riprendere gli studi e a ottenere un diploma, ma non mi sentivo ancora pronto a incontrarlo ». L’occasione di tornare in Colombia si presenta con una onlus che aiuta i minori abbandonati. Ma la paura è ancora grande. «Quando sono arrivato non me la sono sentita di incontrarlo subito; l’idea mi attirava ma mi spaventava, e poi volevo prima conoscere un po’ meglio la lingua». Due mesi e mezzo dopo i due fratelli finalmente si rivedono, ma le cose vanno diversamente da quanto forse entrambi si erano immaginati. «Ci siamo dati appuntamento in un centro commerciale a Bogotà, abbiamo mangiato insieme, ma è stato un incontro “freddo”. Non ci siamo neppure abbracciati, ci siamo salutati come due sconosciuti, quali in realtà eravamo. Per mio fratello però questo incontro è stato una svolta. Mi ha detto che per anni si era lasciato andare perché si sentiva solo al mondo. Si drogava con il peggio del peggio, il paco, una droga ottenuta dagli scarti della cocaina. Tutto è cambiato quando ha saputo che dall’altra parte del mondo c’era un fratello che pensava a lui e lo aveva cercato. Questo, e solo questo, mi ha detto, l’aveva convinto ad accettare di entrare in comunità ». Alan poco dopo deve tornare in Italia, ma lascia il fratello con la promessa che gli avrebbe pagato gli studi. «Ora ci sentiamo costantemente, con Skype o su Whatsapp. Lui si è iscritto a infermieristica. La sua vita è cambiata, e anche la mia».
Nel frattempo però, sempre con Facebook, irrompono nella vita di Alan anche i genitori biologici. «Sono venuti a sapere non so come dell’incontro e hanno deciso di mettersi in contatto, ma non è stata una bella esperienza». Per chi è stato adottato il rapporto mentale con i genitori biologici è un buco nero per niente facile da gestire. Per Alan è difficile raccontare, fa una pausa, prende tempo: «Avevo vissuto tutta la vita con un vuoto nel cuore. Negli anni mi ero costruito un’immagine ideale, ma quando ho avuto la possibilità di vederli, quell’immagine si è frantumata in un attimo. Erano due estranei». Poi con un sussurro, quasi parlando tra sé: «Come se non bastasse, hanno pensato bene quasi subito di chiedermi dei soldi. Anche per questo ho deciso di chiudere i contatti». Quell’incontro però, anche se traumatico, è stato decisivo. «Ho finalmente riempito il vuoto che sentivo nel cuore da tanti anni ed è stato il modo per capire definitivamente che i miei genitori erano quelli che mi avevano adottato».
Alan ha accettato di raccontare la sua storia durante un incontro sul ruolo dei social network nella ricerca delle origini organizzato dall’Istituto La Casa, uno degli enti italiani autorizzati all’adozione internazionale. «Tutti i ragazzi adottati, ciascuno a proprio modo, a un certo punto sentono il bisogno di sapere da dove vengono. I social hanno rivoluzionato le cose rispetto a qualche anno fa. Non servono più ricerche negli archivi, ora basta battere un nome sulla tastiera. E mi fa ridere la legge italiana che fissa a 25 anni l’età in cui un ragazzo adottato può chiedere notizie sulle sue origini. A 14 anni con qualche clic si è in grado di fare da soli quello che la legge nega».

La foto di alan e suo fratello pubblicata su La Repubblica
DI NUOVO INSIEME
Alan abbracciato con il fratello più piccolo, che vive in Colombia, ritrovato grazie alle sue indagini sui social network
L’incontro con i genitori biologici andato male:
“Mi hanno chiesto soldi e ho troncato subito” “Sapere di stare qui al sicuro mentre di lui ignoravo tutto: vivevo col senso di colpa”